I resti di un antico mulino ad acqua sul fiume Flascio: una memoria storica dimenticata

Nella contrada Flascio di Randazzo, a poca distanza dall’omonimo fiume, sorge un complesso composto da diversi corpi di fabbrica giustapposti, uno dei quali pertinente ai resti di un antico mulino ad acqua [Fig. 1], per la lavorazione dei cereali, le cui origini affondano nel lontano XII secolo.

Fig. 1

Figura 1: Randazzo (CT), Contrada Flascio, I resti del mulino ai nostri giorni

L’odierna forma del toponimo che designa la contrada è l’effetto di una ipercorrezione, in quanto dalle antiche attestazioni, risalenti al Medioevo, la forma originaria era Fraxinu, il cui fitonimo dal latino fraxinus, attesta la presenza di un bosco di frassino.

Il territorio che si estende lungo il fiume Flascio[1], da sempre crocevia naturale di passaggio, è un luogo di notevole rilevanza paesaggistica e di grande interesse storico-culturale, immerso nella natura incontaminata della valle dei Nebrodi [Fig. 2], il quale mantiene ancora quasi del tutto inalterati i caratteri insediativi delle comunità di tradizione agro-selvo-pascorali.

Fig. 2 Figura 2: Medio bacino del fiume Flascio, versante meridionale dei Nebrodi, località Zarbata, foto Salvo Granato

Ha attraversato secoli di storia, testimone nel 1061 del passaggio di Ruggero d’Altavilla (m. 1101), futuro conte di Sicilia, e del fratello Roberto il Guiscardo (1015-1085), che, racconta la cronaca di Malaterra[2], muovendo da Messina con il loro esercito, valicando i Nebrodi, sopraggiunsero «ad Fraxinos» (ai Frassini) e successivamente «ad Maniaci pratum» (al prato di Maniaci)[3].

Le origini del mulino mosso dall’energia idraulica è molto antica. Le prime testimonianze si hanno a partire dal I secolo a. C., nell’area del Mediterraneo orientale. La prima è più antica menzione di un mulino ad acqua o hydralétes è quella dello storico e geografo greco Starbone (50 a. C. – 25 d. C.), che nel suo trattato Geografia, descrive un mulino ad acqua a Cabria nel Ponto, fatto costruire dal re Mitridate VI Eupatore (120 a.C.- 63 a.C.) nel suo palazzo reale[4].

I Romani conoscevano il principio del mulino ad acqua: l’architetto romano Vitruvio Pollione (I sec. a.C.), nel quinto capitolo del libro X del suo trattato De Architectura, ne descrive il funzionamento, dopo aver descritto alcune ruote per il sollevamento dell’acqua:

Fiunt etiam in fluminibus rotae eisdem rationibus, quibus supra scriptum est. Circa earum frontes affiguntur pinnae, quae cum percutiuntur ab impetu fluminis, cogunt progredientes versari rotam, et ita modiolis aquam haurientes et in summum referentes sine operarum calcatura, ipsius fluminis impulsu versatae, praestant quod opus est ad usum. Eadem ratione etiam versantur hydraletae, in quibus eadem sunt omnia, praeterquam quod in uno capite axis [habent] tympanum dentatum et inclusum. Id autem ad perpendiculum collocatum in cultrum versatur cum rota partier: secundum id tympanum majus, item dentatum, planum est collocatum, quo continetur [axis habens in summo capite subscudem ferream, qua mola continetur]. Ita dentes ejus timpani, quod est in axe inclusum, impellendo dentes tympani plani, cogunt fieri molarum circinationes; in qua machina impedens infundibulum subministrat molis frumentum, et eadem versatione subigitur farina[5].

Vitruvio tace sulle condizioni che avevano determinato il passaggio di questa tecnologia dal mondo ellenico a quello romano. Tuttavia i Romani non ne fecero largo utilizzo data la rilevante disponibilità di schiavi e bestiame, sfruttati come forma alternativa di energia.

L’impiego e la diffusione del mulino ad acqua si diffuse largamente in Europa solo nel corso del Medioevo, favorita dai Benedettini: il capitolo LXVI (De ostiario Monasterii) della Regola di San Benedetto del 540 d. C. raccomanda un mulino ad acqua all’interno del monastero: «Monasterium autem (si fieri potest) ita debet construi, ut omnia necessaria, id est, aqua, molendinum, hortus, pistrinum, vel artes diversae intra Monasterium exerceantur»[6] (il monastero – se possibile – deve essere costruito in modo che tutte le cose necessarie, come l’acqua, un mulino, un orto, un forno, o i diversi mestieri debbano trovarsi all’interno del monastero) [Fig. 3].

Fig. 3 Figura 3: Ricostruzione di un monastero benedettino

In Sicilia la diffusione dei mulini idraulici la si deve soprattutto agli Arabi e ai Normanni, i quali incanalarono l’acqua dei fiumi e dei torrenti per impiegarla come fonte di energia cinetica per muovere la ruota idraulica.

I mulini medievali della Sicilia, scrive Henri Bresc, erano strutture piccole che non necessitavano di una grande quantità di acqua. Questa, canalizzata dal fiume o dalla sorgente dentro una condotta, azionava una ruota in legno che trascinava la macina in pietra per la molitura[7]. Il tipo di mulino idraulico più diffuso in Sicilia era quello detto a ruota orizzontale o ritrecine [Fig. 4]. Per edificare un mulino e per utilizzare l’acqua del fiume era necessario ottenere una concessione regia, inoltre gli stessi erano soggetti al fisco regio. I proprietari erano per lo più i monasteri, i vescovadi, esponenti della classe feudale o della aristocrazia urbana[8]: ciò era dovuto al fatto che l’impianto di un mulino richiedeva un cospicuo investimento di capitale che solo costoro erano in grado di sostenere. Esso, inoltre, costituiva un’importante fonte di reddito sicura per il feudatario: in genere veniva concesso in affitto dietro pagamento di un canone annuo da corrispondere in natura o in denaro, il gabellotto, altresì, era tenuto a provvedere alle spese di manutenzione e delle eventuali migliorie.

Fig. 4 Figura 4: Schema di funzionamento di un mulino a ruota orizzontale (ritrecine)

Il documento più antico che annota la presenza di un mulino azionato ad acqua nel Val Demone, risale al 1082, quando il conte Ruggero d’Altavilla dona alla chiesa vescovile di Troina «unum molendinum in flumine»[9] (un mulino sul fiume).

Dell’antico impianto molitorio del Flascio si sono conservati parte dell’acquedotto ad archi a tutto sesto in pietra lavica e malta [Figg. 5-6], il quale convogliava attraverso un canale detto saja («sagitta») [Fig.7] l’acqua sino alla torre gradonata[10] [Fig. 8], un canale verticale di carico, meglio conosciuto come botte («buttis»), il quale raggiungeva diversi metri di altezza, uno degli elementi più importanti del mulino.

Fig. 5
Fig. 6 Figure 5-6: Resti dell’acquedotto ad archi a tutto sesto

Fig. 7 Figura 7: Resti della saja

Fig. 8 Figura 8: Resti del canale verticale di carico (botte)

L’esistenza di un mulino nel tenimento detto di Fraxinum nel territorio di Randazzo, ci è documentata, indirettamente, per la prima volta nel maggio del 1140: in tale anno un certo Ronfredo de Nas[11] donava al monastero di Santa Maria di Valle Giosafat una certa chiesa con vigneto e «cum decima unius molendini»[12] (con la decima di un mulino) e con le decime degli uomini latini, ovvero sui Cristiani, e tanta terra quanta una coppia di buoi poteva arare per un anno[13]. Questo dimostra che il mulino, il più antico di cui si abbia notizia nella terra di Randazzo, era già presente e funzionante ben prima di questa data. Esso si ritrova menzionato in altri tre documenti. Il primo è una bolla rilasciata da papa Adriano IV – giudicata falsa da Garufi[14] – e datata primo marzo 1154[15], con il quale il pontefice confermava al monastero i privilegi rilasciati dai suoi predecessori, Innocenzo II, Eugenio III ed Anastasio IV. Il secondo è un privilegio di conferma dato dal re Gugliemo I il Malo (1120-1166), con il quale il sovrano procedeva a confermare al monastero i privilegi concessi allo stesso da suo padre Ruggero II e da altri baroni[16]. Il terzo è una lettera congiunta di Ludovico e Giovanna, datata primo aprile 1357, con la quale i sovrani ordinavano agli ufficiali della città di Messina, su richiesta dell’abate del monastero di Santa Maria di Valle Giosafat, di rispettare i diritti di possessione sui casali, concessi allo stesso dai tempi remoti sino alla morte di Roberto d’Angiò (1276-1343). Alla missiva seguiva il privilegio di conferma di Guglielmo II il Buono (1153-1189) del gennaio del 1188[17].

In seguito non si hanno altre menzioni fino al 1395, allorquando i sovrani Martino I il Giovane e Maria, con il privilegio del 28 giugno 1395, concedevano a Corrado Lancia[18], figlio del nobile Perruccio[19], il feudo vocatum lu Fraxinu, confiscato al ribelle Iohannes seu Antonius de Castella eius frater, posto nel territorio di Maniace[20], con tutti gli annessi e connessi, ovvero «herbagiis, glandagiis, decimis, censualibus, aquis, molendinis, aqueductibus, viridariis, vineis» (erbaggi, ghiande, decime, censi, acque, mulini, acquedotti, giardini, vigne)[21]. Questo documento è un’importante fonte d’informazioni, dato che oltre a confermarci l’esistenza del mulino, testimonia anche la presenza di una presa d’acqua, ossia la canalizzazione che adduce l’acqua del fiume all’impianto molitorio. Il fatto che nel privilegio venga impiegato il plurale molendinis e aqueductibus non implica necessariamente la presenza di più di un mulino così come di più di una presa d’acqua nel feudo.

Il feudo Fraxinu[22], incamerato dalla regia corte dopo la morte di Belengarie di Antiochia[23], venne concesso cum iuriribus et pertinenciis suis da Alfonso il Magnanimo, mediante un suo privilegio datato 11 gennaio 1421, al nobile aragonese Gonsalvo (Godinsalvo) de Monroy[24], militis camerarii et consiliarii regii [25].

Dopo solo tre anni, il 28 agosto 1424, Gonsalvo de Monroy donava, con atto di donazione inter vivos rogato dal notaio Nicola de Augusta, al miles Gomes de Quadro e ai suoi eredi e successori, i feudi di lu Fraxinu e di Briemi con le loro pertinenze «nemoribus vallonibus fluminibus rivis aquarum decursibus et saltibus glutis mandris tracirii mineriis molendinis viridariis terris cultis et non cultis» (boschi, valli, fiumi, torrenti, corsi d’acqua e salti, cereali, mandrie, … miniere, mulini, giardini, terre colte ed incolte), che l’infante Pietro, fratello del re Alfonso, confermava, con privilegio del primo novembre[26], escludendo e riservando, come di consueto, totalmente dalla presente conferma le leggi di lignare, le miniere, le saline, le foreste, i giardini e le antiche difese di dominio regio, e quelle cose spettanti dai tempi antichi allo stesso demanio[27].

Gomes, con testamento del 25 agosto 1455, lasciò i due feudi al figlio Giovanni, che prestò omaggio feudale e giuramento di fedeltà a re Alfonso, innanzi al viceré Lop Ximen Durrea (de Urrea) il 16 luglio 1456[28], ed ancora a re Giovanni, l’8 giugno 1459, tramite il suo procuratore Pardus de la Casta[29]. Nel 1486, in seguito alla morte di Giovanni, (anno di redazione del suo testamento[30]) questi beni feudali passarono, per disposizioni testamentarie, alla figlia minore Giovannella (affidata, assieme alla sorella Tucia, alla tutela dello zio materno Riccardo Filangeri), che nel 1490 li portò in dote al miles Pietro Rizzari. Qualche anno dopo, il 5 novembre 1495, Giovannella prestava omaggio feudale e giuramento di fedeltà a re Ferdinando II, tramite il suo procuratore Angelo Rizzari[31].

Stando all’elenco dei mulini esistenti nella terra e nella flomaria magna della terra di Randazzo – sottoposti al pagamento del censo regio -, riportato da Giovan Luca Barberi, segretario e maestro notaio della Real Cancelleria siciliana, nel suo Liber de Secretiis[32], sappiamo che, nel 1506, nel feudo Fraxino erano attivi due impianti molitori, uno vocato di Faso[33], al quale erano annessi anche una serra (serre), cioè una sega azionata da ruote idrauliche per segare i tronchi d’albero [Fig. 9], e un battinderio (bactinderio) o gualchiera, un mortaio per la follatura dei panni[34] [Figg. 10-11]; l’altro nominato lu Faxo subtani[35] dotato di una macina per i cereali e di un battinderio. La forma Faso/Faxo può essere dovuta ad un errore di scrittura con dimenticanza del relativo segno abbreviativo, ad una forma dialettale o ad una forma contratta di Fraxino. L’appellativo indica con l’avverbio di luogo subtani (sotto) la sua posizione, ovvero più a valle rispetto all’altro mulino, posizionato più a monte.

Fig. 9 Figura 9: Sega azionata da ruote idrauliche, rappresentazione di Francesco di Giorgio Martini del XV secolo, Biblioteca apostolica Vaticana, Codicetto, Urb.lat.1757, f. 165v

Fig. 10 Figura 10: Battinderio, G. A. Böckler, Theatrum machinarum novum, Noribergae 1662

Fig. 11 Figura 11: Il moto di rotazione generato dalla caduta del getto d’acqua sul ritrecine, veniva trasmesso, oltre che alla macina, all’albero motore, provvisto di camme, del battinderio, il quale azionava a sua volta delle grandi gambe di legno o magli (folloni) che alternativamente battevano il tessuto grezzo di lana, in precedenza immerso in acqua, soda, urina e argilla, per perdere il grasso che rivestiva le sue fibre

La nobildonna, il 5 marzo 1507, donava i feudi, mediante una donazione irrevocabile inter vivos, di dubbia autenticità[36], alla chiesa di Santa Maria di Randazzo, che veniva in seguito confermata con regio assenso del 28 aprile e resa esecutiva il 31 luglio. Un ulteriore donazione inter vivos contribuì ad ingarbugliare le cose: nel novembre del 1513, Giovannella donava i feudi con le loro pertinenze «terragiis herbagiis nemoribus aquarum decursibus et aliis» ad Andrea Santangelo – sposato in seconde nozze dopo la morte di Pietro Rizzari – ed ai suoi eredi e successori in perpetuum.

Non è possibile, in questa sede, offrire una disanima completa dell’intrigata vicenda, che sarà trattata più ampiamente in un saggio in corso di stesura, a ogni modo, qui sarà sufficiente accennare che alla morte della baronessa Giovanella (avvenuta il 15 luglio 1529), il notaio Pietro Paolo Russo di Randazzo investiva Iohannes Georgius Preximone, procuratore della chiesa di Santa Maria, nel «naturalem civilem corporalem actualem realem» (naturale, civile, corporale, attuale, reale) possesso del feudo Fraxinu, attraverso la consueta cerimonia che dava veste ufficiale alla titolarità del feudo. L’atto solenne ebbe luogo sulle terre del feudo, il 30 luglio 1529, alla presenza del notaio, dei testimoni e degli ufficiali di Randazzo, seguendo una precisa ritualità e specifici gesti, nel nostro caso, «per tactum lapidis erbarium aquarum» (attraverso il tocco della pietra di confine, delle erbe e delle acque), e per incisione degli alberi come solita tradizione[37].

Del mulino non si hanno notizie successive fino alla metà del XIX secolo (1847), quando il Plumari nel suo manoscritto Storia di Randazzo, disquisendo delle chiese della città, riportava che la «Chiesa dè SS. TRE-RÈ, fin’oggi esistente presso la Torre del Fraxio»[38]. Come si legge dalle parole del reverendo la chiesa dedicata ai Santissimi Tre Re (Re Magi) si trovava vicino alla Torre del Flascio, ovvero la botte del mulino, denominata così dallo storico e in alcune mappe topografiche [Fig. 12] per la sua della somiglianza con una torre.

Immagine 2023-06-29 163713 Figura 12: Particolare della mappa «Contorni dell’Etna» pubblicata da Karl Baedeker nel 1869

Seguendo le indicazioni del Plumari e confrontandole con i dati topografici e quelli ricavati dalle Mappe del Catasto borbonico del 1852 [Fig. 13] e dal Sommarione del Catasto provvisorio siciliano del 1852, che registra una chiesa e un mulino di proprietà dell’Opera de Quatris[39], è possibile identificare la chiesa dei Santissimi Tre Re con la chiesetta annessa alla masseria, un tempo appartenuta alla baronessa de Quadro, della quale oggi restano solo i ruderi[40] [Fig. 14] e una rara fotografia d’epoca, riportata nel libro Le cento chiese di Randazzo di Salvatore Rizzeri[41] [Fig. 15].

Fig. 13 Figura 13: Particolare, Mappa del Territorio di Randazzo, Regione Siciliana, CRCD, U.O IV, Archivio cartografico Mortillaro di Villarena, mappa n. 151

Fig. 14 bis Fig. 15

 

 

 

 

 

 

 

Figura 14: Ruderi della chiesa dei SS. Tre Re
Figura 15: Una rara foto (forse unica) della chiesa come si presentava alla fine degli anni ’90

La presenza di questo mulino viene poi registrata nelle mappe “Europe in the XIX. Century – Third Military Survey -” del 1862-1876 [Fig. 16] e in una mappa edita dal Touring Club d’Italia nel 1919 [Fig. 17].

Immagine 2023-06-29 163804 Figura 16: Particolare della mappa C26 “Europe in the XIX. Century – Third Military Survey”

Immagine 2023-06-29 163831 Figura 17: Particolare della mappa “Etna” edita dal Touring Club d’Italia nel 1919

Ed ancora nel 1933 quando con il provvedimento del 28 settembre, viene riconosciuto all’arciprete Francesco Germanà, presidente pro tempore dell’Opera de Quatris, il diritto di ricavare dal torrente Flascio «mod.[42] 0,31 di acqua per sviluppare mediante il salto di m. 11, la forza nominale di HP[43] 4,55 allo scopo di azionare un molino»[44].

NOTE

[1] Il fiume Flascio ha origine dal lago Pisciotto nel territorio di Tortorici, a quota 1250 metri s. l. m. e dopo un percorso di circa 16 chilometri confluisce nel lago Gurrida, nel territorio di Randazzo. Ringrazio di cuore il mio caro amico Salvo Granato per avermi mandato la foto del fiume.
[2] Goffredo Malaterra fu un monaco benedettino di origine normanna, appartenente al monastero di S. Agata di Catania, di cui fu abate il vescovo di Catania Angerio. La sua opera in quattro libri, che nella sua edizione più recente, è intitolata De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius, gli venne commissionata dal conte Ruggero I e rappresenta la cronaca “ufficiale” della conquista della Sicilia.
[3] GAUFREDI MALATERRAE, Historia sicula, in Rerum Italicarum Scriptores, ed. L. A. Muratori, Mediolani 1724, Tomus V, p. 562.
[4] Della Geografia di Strabone Libri XVII, volgarizzati da Francesco Ambrosoli, Milano 1834, Vol. IV, Libro XII, cap. 2, p. 146.
[5] MARCI VITRUVII POLLIONIS, De Architectura Libri decem, ed. by Jo. Gottlob Schneider, Venetiis 1855, X, col. 383. (Trad. “Anche lungo i fiumi si trovano delle ruote che funzionano con il medesimo sistema, di quelle che sono state descritte sopra. Intorno alle loro parti esterne sono attaccate delle pinne, che quando sono colpite dall’impeto del fiume fanno in modo che, mentre procedono, la ruota giri, e così, mediante la potenza del fiume e senza l’opera degli uomini, danno ciò che è necessario all’uso attingendo l’acqua con i secchielli e portandola in alto. Allo stesso modo si muovono anche gli altri mulini ad acqua, nei quali vi sono tutte le medesime cose, eccetto che hanno in un capo dell’asse inserita una ruota dentata. La stessa è messa di taglio in perpendicolare all’asse e gira insieme alla ruota: accanto a questa c’è una ruota più grande, anch’essa dentata, disposta orizzontalmente che è congiunta all’asse sulla cui estremità superiore vi è una graffa di ferro a coda di rondine che è unita alla mola. Così i denti di questa ruota, che è inclusa nell’asse, mettendo in movimento i denti della ruota in orizzontale creano il movimento circolare delle mole. Sopra questa macchina vi è una tramoggia che somministra frumento alla mola, la quale a sua volta girando lo riduce in farina”).
[6] GREGORIO MAGNO, Vita di San Benedetto e la Regola, Città Nuova Editrice, Roma 2006, pp. 230-232.
[7] H. BRESC, «Mulini e paratori nel Medioevo siciliano», in H. BRESC – P. DI SALVO, Mulini ad acqua in Sicilia. I mulini, i paratori, le cartiere e altre applicazioni, L’Epos, Palermo 2001, p. 31.
[8] A. GIUFFRIDA, Permanenza tecnologica ed espansione territoriale del mulino ad acqua siciliano (secoli XIV-XVI), in Archivio storico per la Sicilia orientale, LXIX, fasc. II, 1973, p. 204.
[9] R. PIRRI, Sicilia Sacra disquisitionibus et notitiis illustrata, ed. by A. Mongitore – V. M. Amico, Panormi 1733, Vol. I, p. 495.
[10] Tipo di torre diffusa nell’area etnea e nel territorio centroisolano, con anelli in pietra a giacitura fortemente inclinata; mentre sui Nebrodi e sui Peloritani era diffusa la torre verticale, alta circa 10 metri, con pareti leggermente scarpate, che comprendevano al suo interno il condotto forzato (‘utti) ottenuto da blocchi quadrati con foratura troncoconica a restringimento progressivo per la tenuta stagna. La molitura, https://www2.regione.sicilia.it/beniculturali/museomistretta/02_pulsanti/ percorsi/07_grano_tessitura/pagine/pagine/004.htm (ultimo accesso 03//02/2023).
[11] In altri documenti Romfredo de Nas (Archivio di Stato di Palermo [=ASPa], Tabulario dei monasteri di S. Maria Maddalena di Valle Giosafat e di San Placido di Calonerò, perg. n. 23a; Edizione in P.F. KEHR, Papsturkunden in Sizilien, Nachrichten von der Königl. Gesellschaft der Wissenschaften zu Göttingen, Philologisch-Historische Klasse, Göttingen 1899, I, pp. 348-354); Rafrè di Naso (P. COLLURA, Appendice al regesto dei diplomi di Re Ruggero compilato da Erich Caspar, in «Atti del Convegno Internazionale di Studi Ruggeriani», Palermo 1955, p. 602). Un certo Raffredo de Nasa (Roffredo di Naso in E. CASPAR, Roger II (1101-1154) und die Gründung der normannisch – sicilischen Monarchie, Innsbruck 1904, p. 487) compare in qualità di testimone in un diploma della contessa Adelasia e del figlio Ruggero dato a Palermo il 12 giugno 1112. (R. PIRRI, Sicilia Sacra, cit. p. 81; A. MONGITORE, Bullae, privilegia et instrumenta Panormitanae Metropolitanae Ecclesiae, Regni Siciliae primariae, collecta, notisque illustrata, Panormi 1734, p. 17) Egli, probabilmente, è da identificarsi con quel Goffredo de Garres, a cui il Gran Conte Ruggero donò, nel 1094, metà del castello di Naso. Un Galtere di Garres di Naso (γαλτέρη διγαρρες της νάσου) viene menzionato in un documento del 1134 concernente una controversia, intorno all’uso e al possesso di taluni poderi, tra Giovanni vescovo di Patti e Galtere de Garres, risolta innanzi a Ruggero II (G. SPATA, Diplomi greci siciliani inediti, Torino 1871, doc. II, pp. 16-20).
[12] Un tributo equivalente alla decima parte del reddito annuale.
[13] «Item in territorio Randacii in tenimento quod dicitur / fraxinum quandam ecclesiam cum vinea et cum decima unius molendini et cum decimis / hominum latinorum et tanta terra quanta sufficit ad par unum boum arare per unum annum / concessam predicto monasterio a Ronfredo de Nas». Catania, Biblioteche Riunite Civica e A. Ursino Recupero, Tabulario dei monasteri di San Nicolò l’Arena di Catania e di S. Maria di Licodia, Apostolice sedis, perg. 10 (ex 2.27.F.1).
[14] C. A. GARUFI, I documenti inediti dell’epoca normanna in Sicilia, in Documenti per servire alla Storia di Sicilia, I serie, XVIII, Palermo 1899, pp. 318-319.
[15] H.-F. DELABORDE, Chartes de Terre Sainte provenant de l’Abbaye de N.-D. de Josaphat, Paris 1880, doc. XXXI, pp. 72-78.
[16] C. A. GARUFI, I documenti inediti dell’epoca normanna in Sicilia, op. cit., doc. XXIX, pp.67-72.
[17] G. TRAVALI, I diplomi angioini dello Archivio di Stato di Palermo, Palermo 1886, doc. XXI, pp. 29-38.
[18] Nato verso il 1380, barone di Ficarra. Nel 1403 sposa Laura Arezzo, figlia di Giacomo, protonotaro del regno, dalla quale ebbe Pietro, Valore, Violante e Giovanni. Per le informazioni sulla sua biografia, si rinvia a Dei Lancia di Brolo: albero genealogico e biografie, Palermo 1879, pp. 157-160.
[19] Pietro Lancia alias di Modica, figlio di Corrado Lancia e Margherita. Per la biografia si veda Ivi, pp. 143-151.
[20] Il feudo confinava con il «feudo ecclesie Sancti Pauli et cum feudo vocato la Porta di Randazu Nemori, cum feudo quod fuit Iohannis Preciosi et cum terra di lu Cumuni di Randazu et aliis confinibus».
[21] ASPa, Real Cancelleria [=RC], reg. 24, cc. 8v-9r.
[22] Sito e posto nel Val Demone, nel territorio di Randazzo, presso la «flomariam qui dissidit ad feudum Gurride secus viam publicam versus Maniachi propre Portam Randacii et iuxta territorium Ucrie et alios confines».
[23] Belengaria era figlia di Benedetto di Antiochia e della seconda moglie Margherita figlia del miles Nicola de Homodeo, il quale possedette il feudo Fraxinu. Nel 1345 Benedetto di Antiochia, secondo quanto risulta dall’ l’Adohamentum sub rege Ludovico, percepiva trenta onze di reddito ed in cambio era chiamato a corrispondere il servizio di un cavallo armato e mezzo (Imperatum Adohamentum sub Rege Ludovico, in R. GREGORIO, Bibliotheca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub Aragonum imperio retulere, Palermo 1792, Tomo 2, p. 471). Alla morte del padre, Belengaria, che aveva sposato Niccolò de Claro, dovette difendere il possesso del feudo dalle rivendicazioni di suo cognato Federico de Tarento, marito della sorella ex patre Pina, il quale alterando la data del primo testamento del suocero e rilasciando falsa testimonianza, subentrò nel possesso dello stesso, escludendo Belengaria, tant’è che dalla “recensio pheudorum” del 1408 risultava possessore del feudo (Palermo, Biblioteca comunale, Constitucione, ordinaciones,capitula, privilegia, pragmatice Sanciones et leges municipales Regni Sicilie, ed. Johannem Matheum de Speciali, Panhormi 1492, Qq_H_124, f. 140r). Tuttavia la tenacia della gentildonna insieme all’abilità dell’illustre legum doctor siracusano Guglielmo Perno, portava, dopo 22 anni, alla verità e alla vittoria delle ragioni della stessa; il cognato Federico venne condannato, dal giudice della Regia Corte Ruggero de Berlione alla pena della decapitazione. Siracusa, Biblioteca Comunale, Libro di legge. Guillielmi de Perno Consilia 128, cons. 106, 107, ff. 189r-192v.
[24] Il Monroy come ricompensa per i servigi prestati a re Alfonso durante la conquista della Sardegna e della Corsica, ottenne dal sovrano, con privilegio del 16 aprile 1416, la concessione di tutti quei feudi, baronie e beni borgensatici che per scadenza, processo o decesso ed in qualunque altro modo fossero ricaduti nella disponibilità della Regia Corte, purché il loro reddito annuale non eccedesse la somma di onze 400. G. L. BARBERI, I Capibrevi, ed. by G. Silvestri, Vol. II: I feudi del Val di Demina, Palermo 1886, p. 118.
[25] ASPa, Protonotaro del Regno [=PR], reg. 23, cc. 55v-57v.
[26] ASPa, RC, reg. 55 bis, c. 57v-61r.
[27] «iuribus lignaminum siqua in dictis pheudis et eorum tenimentis regie curie debentur nec non mineriis salinis forestis solaciis et defensis antiquis que sunt de regio demanio et ea velut ex antiquo eiusdem regio demanio spectancia in regiis».
[28] ASPa, RC, reg. 100, cc. 2rv. Il testo del documento è edito in A. COSTA, L’ira del re e la fedeltà dei sudditi. Un quaternus di fideomagi della metà del Quattrocento, Associazione Mediterranea, Palermo 2013, p. 139, n. 4.
[29] ASPa, RC, reg. 100, c. 52r. il testo del documento è edito in Ivi, p. 249, n. 227.
[30] Giovanni, l’11 ottobre 1486, benché giacente nel letto, nella sua casa di Catania, malato di corpo ma sano di mente, dettava il suo testamento.
[31] ASPa, RC, reg. 193, cc. 524rv.
[32] ASPa, RC, Misc. II.48 (Liber de Secretiis), f. 196r; J. L. DE BARBERIIS, Liber de Secretiis, ed. by E. Mazzarese Fardella, Milano 1966, p. 189.
[33] Di questo mulino non c’è traccia.
[34] Nei mulini, spesso convivevano diversi impianti. I battinderi erano presenti nelle campagne in cui si praticava l’allevamento di ovini e in zone in cui la tessitura era largamente diffusa, mentre le serre erano presenti in prossimità di aree boschive, in quanto legate allo sfruttamento delle risorse forestali del territorio.
[35] Con tutta probabilità da identificarsi con l’edificio che costituisce l’oggetto del nostro studio.
[36] Si rinvia in proposito ad A. MILITI, La donazione della baronessa de Quadro: “l’arma segreta” del clero di Santa Maria per conquistare l’egemonia religiosa?, Randazzo segreta, https://randazzosegreta.myblog.it/2021/12/22/la-donazione-della-baronessa-de-quadro-larma-segreta-del-clero-di-santa-maria-per-conquistare-legemonia-religiosa/ (ultimo accesso 22/12/2021).
[37] La cerimonia è stata registrata in un atto notarile, redatta dallo stesso notaio, che contiene il verbale della presa di possesso del feudo.
[38] G. PLUMARI ED EMMANUELE, Storia di Randazzo trattata in seno ad alcuni cenni della Storia Generale di Sicilia, ms. 1847-49, Palermo, Biblioteca Comunale, Qq G76, Vol. I, p. 324, n. 20.
[39] Archivio di Stato di Catania, Catasto provvisorio siciliano, Sommarione di Randazzo, vol. 2229, Sezione L, nn. 10, 13 p. 372.
[40] Il tetto della chiesa crollò nel 2010. Si ritiene che essa possa identificarsi con la chiesa citata nel documento del maggio 1140. Ringrazio Carmelo Scalisi che gentilmente e con disponibilità mi ha messo a disposizione la masseria.
[41] Ringrazio il dottor Salvatore Rizzeri per avermi messo a disposizione la scansione della rara fotografia.
[42] Moduli.
[43] Cavallo vapore.
[44] Rassegna amministrativa, Riconoscimenti di utenze idriche, «Supplemento mensile economico-statistico a L’Energia Elettrica», Vol. X, Fasc. XII, Anno XII (dicembre 1933), p. 2.

FONTI DELL’ILLUSTRAZIONI

Le fotografie riprodotte nell’articolo, quando non specificato diversamente, sono state eseguite dall’autrice.

Figura 2: Medio bacino del fiume Flascio, versante meridionale dei Nebrodi, località Zarbata, foto gentilmente fornita da Salvo Granato.
Figura 3: Ricostruzione di un monastero benedettino, disegno tratto da https://education.minecraft.net/en-us/lessons/old-monastery (ultimo accesso 22/01/2023).
Figura 4: Schema di funzionamento di un mulino a ruota orizzontale (ritrecine), disegno tratto da I sentieri natura del Parco, a cura del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano.
Figura 9: Sega azionata da ruote idrauliche, rappresentazione di Francesco di Giorgio Martini del XV secolo, Biblioteca apostolica Vaticana, Codicetto, Urb.lat.1757, f. 165v.
Figura 10: Battinderio, G. A. Böckler, Theatrum machinarum novum, Noribergae 1662, Tav. 72.
Figura 11: Disegno tratto da https://formiaelasuastoria.wordpress.com/2017/04/03/il-vico-gualchiera-e-il-vico-caposelice-a-formia/#jp-carousel-1501 (ultimo accesso 22/01/2023).
Figura 12: Particolare della mappa «Contorni dell’Etna» pubblicata da Karl Baedeker nel 1869, tratta da Karl Baedeker, Italy: Handbook for Travellers, Coblenz 1869, Vol. 3: Southern Italy, Sicily, p. 282.
Figura 13: Particolare, Mappa del Territorio di Randazzo, Regione Siciliana, CRCD, U.O IV, Archivio cartografico Mortillaro di Villarena, mappa n. 151, tratta da tratta da Le mappe del Catasto Borbonico di Sicilia. Territori comunali e centri urbani nell’archivio cartografico Mortillaro di Villarena (1837-1853), ed. by E. Caruso – A. Nobili, Palermo, Regione siciliana, Assessorato dei beni culturali e ambientali e della pubblica istruzione, 2001, p. 330.
Figura 15: Una rara foto (forse unica) della chiesa come si presentava alla fine degli anni ’90, scansione gentilmente fornita dal dottor Salvatore Rizzeri.
Figura 16: Particolare della mappa C26 “Europe in the XIX. Century – Third Military Survey”, https://maps.arcanum.com/en/map/europe-19century-thirdsurvey/?layers=160%2C166&bbox=413982.94519251445%2C5779710.061815894%2C2063799.7636997588%2C6372861.401308862 (ultimo accesso 13/01/2023).
Figura 17: Particolare della mappa “Etna” edita dal Touring Club d’Italia nel 1919, tratta da Guida d’Italia, Touring Club d’Italia, 1919.

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I resti della chiesa di San Mattia: una probabile chiesa templare?

Tra le diciannove stampe fotografiche realizzate dai fratelli Biondi, nel 1891 e pubblicate all’interno del volume “Raccolta delle fotografie dei monumenti antichi della provincia di Catania”, suscita particolare interesse quella che immortala la facciata meridionale del “Palazzo dimora del conte Ruggiero” (fig. 1), meglio conosciuto come “Palazzo Rumolo”, ubicato lungo il corso Umberto I, di fronte l’ex monastero di Santa Caterina.

167 Figura 1: Facciata meridionale del Palazzo Rumolo, in una stampa fotografica dei fratelli Bianchi, 1891

Osservando bene l’antica stampa, si può ben vedere come, oltre l’antico palazzo, ormai completamente trasformato, sia stato immortalato, in primo piano, un edificio con una piccola abside semicircolare.

Stando ad un documento dell’8 gennaio 1750 riguardante i confini dei tre quartieri, trascritto nel Libro Rosso della chiesa di San Nicola, trattasi della chiesa un tempo intitolata a Sant’Andrea. Il documento precisa che:

Metà del Monastero di Santa Catarina è nel nostro quartiere, domentre un tempo [la strada] divideva dove al presente vi è il Portico del Palazzo noto di Rumbolo ed usciva dov’è al presente la cisterna nel giardino vicino il casaleno che olim era chiesa di Sant’Andrea, la qual’era strada vicino detta cisterna[1]

Non è noto con precisione quanto la chiesa venne sconsacrata e adibita ad uso profano.

Nel 1847, il reverendo Plumari, nel suo manoscritto Storia di Randazzo, disquisendo delle chiese della città, riferendosi alla chiesa scrive «Chiesa di Sto Mattia Apostolo, esistente profanata presso il Palazzo di Romolo»[2].

Allo stato attuale non è facile spiegare questa discordanza nel titolo della chiesa.

La mappa catastale urbana di Randazzo del 1877, invece, ci fornisce la sua precisa ubicazione (fig. 2).

Mappa 1877 palazzo e chiesa Figura 2: Particolare della mappa catastale urbana di Randazzo, 1877

Parte della chiesa è tutt’ora esistente ed è adibita a magazzino (fig. 3).

Immagine satellite Figura 3: Immagine satellitare (da Google Earth 2020) dell’area ove insistono i resti della chiesa di San Mattia

La chiesa si pensa risalga agli inizi del XIV secolo. Essa presenta una pianta basilicale ad unica navata con un’abside semicircolare.

Dall’analisi eseguita sulle immagini satellitari georeferenziate si rileva che l’orientazione della chiesa di San Mattia, pur rispettando il criterio Versus Solem Orientem, che consisteva nell’orientare i luoghi di culto verso l’oriente, tanto raccomandato dalla Chiesa di Roma durante il medioevo, fu orientata in modo da coincidere con il sorgere del Sole, all’orizzonte naturale locale, nei giorni 25 marzo e 8 settembre del calendario Giuliano, ovvero nei giorni in cui la Chiesa cattolica festeggia l’Annunciazione (Incarnatione Domini) e la Natività di Maria. Date in cui cadevano due importanti feste particolarmente solennizzate dai Cavalieri Templari.

L’orientazione rilevata, unitamente alla dedicazione della chiesa a San Mattia – santo caro ai Templari – rappresentano una ulteriore conferma dello stretto legame che esisteva tra la Città e l’Ordine dei Cavalieri Templari[3].

RINGRAZIAMENTI

Desidero ringraziare di cuore Beppe Petrullo e Claudio Sinagra per il tempo dedicatomi.

NOTE

[1] Archivio chiesa di San Nicola, Libro Rosso, f. 211r.
[2] Plumari G., Storia di Randazzo trattata in seno ad alcuni cenni della Storia generale di Sicilia, voll. I-II, ms. 1847-9, Biblioteca Comunale di Palermo, Qq G76-77 (Biblioteca Comunale di Randazzo riproduzione in fotocopia), vol. I, Libro III, p. 325, n. 70.
[3] Militi A., Randazzo segreta. Astronomia, geometria sacra e misteri, Acireale-Roma, Tipheret, 2012.

FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI

Figura 1: Facciata meridionale del Palazzo Rumolo, in una stampa fotografica dei fratelli Bianchi, 1891, Raccolta delle fotografie dei monumenti antichi della provincia di Catania, 1891, Biblioteche Riunite “Civica e A. Ursino Recupero” di Catania, Museo.5.31, http://websrv.archeo.unict.it:8080/items/show/6229#?c=0&m=0&s=0&cv=0 (ultimo accesso: 01-02-2022). Le diciannove stampe fotografiche sono state pubblicate nella Gallery del blog “Randazzo segreta” https://randazzosegreta.myblog.it/foto/randazzo-immortalata-dai-fratelli-biondi-1891/.
Figura 2: Particolare della mappa catastale urbana di Randazzo, 1877: Montera C., Una città… e le sue «recenti» vicende urbanistiche, in «Randazzo notizie», Anno II°, n. 4, Gravina di Catania, 1983, p. 8.

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Il misterioso tesoro della Maddalena

Il monastero di San Giorgio è un luogo affascinante e suggestivo dove sacro e leggende si mescolano inestricabilmente.

DSC00793 Figura 1: Randazzo, Monastero di San Giorgio

Il monastero è famoso per alcuni antichi passaggi sotterranei, oggi occultati, che lo collegherebbero a stanze sotterranee e alla chiesa di Santa Maria.

Un’antica leggenda, infatti, narra che proprio sotto il monastero si trovi l’ingresso di una grotta, che si apre nelle balze dell’Alcantara, dalla quale partirebbe un cunicolo sotterraneo che collega lo stesso monastero alla chiesa di Santa Maria e alla fine del quale si troverebbe una camera segreta che custodisce un inestimabile tesoro incantato, costituito da innumerevoli oggetti preziosi, tra cui una chioccia con i suoi pulcini in oro, tempestati di pietre preziose[1].

Museo del Duomo, Monza, Tesoro, Chioccia con i pulcini.

Figura 2: Monza, Museo del Duomo, Tesoro, Chioccia con i pulcini

Un’altra affascinante leggenda vuole che sotto il monastero vi sia nascosto il misterioso Tesoro della Maddalena, tesoro d’inestimabile valore che da sempre ha suscitato particolare interesse.

Il primo a riferirci del tesoro fu Francesco Onorato Colonna nel suo manoscritto Idea dell’Antichità della città di Randazzo:

Fuori li muri nel monte detto della Maddalena che sporge sopra il fiume, Corre fama incontrastabile che vi fosse, un gran Tesoro, onde animati alcuni capricciosi ricercarono L’ordine del Regal Patrimonio di poter difossare, e Cavare detto Tesoro; ottenutolo alla fine nello scassarsi entro una gran Grotta fù trovato un’altro Sepolcro di piombo grandissimo, e dentro, un scheretro smisurato di Gigante, che la trascuragine dell’abitanti non curò pigliarne le misure e lasciarne scritta la memoria, non però hà potuto cancellarsi dalla mente di tutti quelli cittadini[2].

In seguito il reverendo Plumari nella sua Storia di Randazzo riprende la notizia ed aggiunge altri particolari:

Nel principio del XVIII secolo sono entrate nella Clausura di esso Monastero varie Persone, previo il permesso dell’abolito Tribunale del Real Patrimonio, e del Prelato Diocesano, le quali scesero per una Strada sotterranea, che sporgeva nel Giardino di esso Monistero, ed ivi hanno trovato molte stanze grottesche con dentro varie Urne di sepolcri di umani Cadaveri di statura più grande di quella ordinaria della presente Generazione. L’ignaro Volgo si dava a credere, che in tal Luogo vi fosse stato un Tesoro, nomato il Tesoro della Maddalena , occultato da Saracini. Altri Osservatori, poi, vi entrarono nell’anno 1770, previe le debite Licenze, affidate alla Vigilanza del fù Arciprete D. Antonio Ventura, Zio Materno della mia Genitrice, qual Visitatore di esso Monastero; ed in vece del supposto Tesoro, han trovato i Cadaveri dè quali è parola; Ciò, che a me disse un di costoro, nomato Mastro Francesco Lo Giudice[3].

DSC01643 Figura 3: Scorcio del giardino del monastero

DSC03471 (800x571) Figura 4: Antico pozzo/cisterna 

NOTE

[1] Militi A., La truvatura della chiesa di Santa Maria: leggenda e simbolismo, in «Randazzo segreta», 2013, https://randazzosegreta.myblog.it/2013/12/21/la-truvatura-della-chiesa-santa-maria-leggenda-simbolismo (ultimo accesso: 01-02.2022).
[2] Onorato Colonna F., Idea dell’antichità della città di Randazzo, ms., 1724, Biblioteche riunite Civica e Ursino Recupero di Catania, Ms. B. 11.1 (Biblioteca Comunale di Randazzo riproduzione in fotocopia), pp. 35-36.
[3] Plumari G., Storia di Randazzo trattata in seno ad alcuni cenni della Storia generale di Sicilia, voll. I-II, ms. del 1847-9, Biblioteca Comunale di Palermo, Qq G76-77 (Biblioteca Comunale di Randazzo riproduzione in fotocopia), vol. I, Libro I, p. 14 nota 1.

FONTI DELLE ILLASTRAZIONI

Figura 2: Monza, Museo del Duomo, Tesoro, Chioccia con i pulcini: http://www.summagallicana.it/lessico/c/chioccia%20con%207%20pulcini%20di%20Teodolinda.htm, agg. 2013.

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La donazione della baronessa de Quadro: “l’arma segreta” del clero di Santa Maria per conquistare l’egemonia religiosa?

“Frode è de l’uom proprio male”
Dante, Inf. XI, 25

Corre l’obbligo di precisare che questo breve contributo è l’anticipazione di uno studio più ampio e complesso, frutto di una lunga e paziente attività di ricerca, in corso di elaborazione e di prossima pubblicazione.

Il 15 maggio 1469, l’archimandrita Leonzio Crisafi pose fine o comunque una tregua all’annosa contesa che vedeva contrapposte le chiese di San Martino e San Nicola a quella di Santa Maria, circa l’esercizio giurisdizionale che ognuna vantava, pronunciando una piena equiparazione tra esse, stabilendo che ciascuna avrebbe esercitato a turno, per un anno, dal primo settembre al 31 agosto, il diritto di preminenza. Il 24 gennaio 1494, il viceré Ferdinando de Acuña emanò un’ulteriore approvazione dell’equiparazione.

La tregua tuttavia non durò a lungo: bastò una singolare quanto importante donazione a favore della chiesa di Santa Maria a minarla.

Il 5 marzo del 1507 la nobildonna Giovannella de Quadro, moglie del magnifico Pietro Rizzari, miles, per la propria anima e di quella di suo marito e dei suoi parenti, con il consenso e l’autorizzazione del coniuge, dona mediante una donazione irrevocabile inter vivos, alla chiesa di Santa Maria di Randazzo, e per essa al nobile Matteo de Longi, procuratore della stessa, i feudi Fraxini e Brieni siti nel territorio di Randazzo, riservando per sé e il marito l’usufrutto in vita e ponendo anche altre condizioni. L’instrumentum pubblico viene rogato in terra Randacii, dal notaio Hieronimus Curupeus, regius puplicus per totam vallem demonum regni sicilie notarii terre Savoce (“regio pubblico notaio per tutto il Valdemone e del regno di Sicilia e della terra di Savoca”), in presenza del giudice di Randazzo e di sette testimoni: il venerabile presbiter Philippus de Pulicio, il venerabile presbiter Micael lo Daynocto, il nobile Iohannes Thomasius Pullichino, il nobile Gullelmus de Modica, il magister Paulus Perchabosco, il magister Renaldus Intagla[1] e il magister Antonius Fassari.

Grazie a questa donazione la chiesa di Santa Maria amplia e consolida il proprio potere, assicurandosi così un’indiscussa egemonia economica sulle altre due chiese.

La donazione suscita notevoli perplessità e con queste i vecchi dissapori tornano a galla, facendo riaccendere, dopo la morte della baronessa, lotte, controversie e altresì vivacissime discussioni tra autorità ecclesiastiche e civili, che si protrarranno per diversi secoli.

Il documento originale di questa donazione, a meno di ulteriori rinvenimenti, è deperdito, e ci è pervenuta solamente una copia semplice cartacea incompleta (mancano, infatti, l’indicazione del nome del giudice, la sua sottoscrizione e quella dei sette testimoni), da me rinvenuta, e una copia autentica su pergamena, tràdita in forma di transunto, esemplata in forma pubblica il 19 marzo 1507 a Palermo dal notaio palermitano Giovanni Francesco Formaggio e sottoscritta dal giudice Geronimo de Maro e da cinque notai: Vincenzo de Sinatro, Antonio Taglianti, Lorenzo Vulpis, Vincenzo de Medicis e Antonio Giocomo de Lello. La completio, preceduta dal signum tabellionis del notaio autenticante Formahasu, è seguita da un’ulteriore nota, apposta il 20 marzo del 1507 dall’Università di Palermo, con la quale la stessa attesta che Iohannes Franciscus Formahasu è un notaio e si annuncia l’apposizione del sigillo, di cui è visibile solo un sottile strato di cera rossa, di forma rotonda.

Singolare, se non sospetto, risulta il fatto che anche il transunto non riporti la sottoscrizione del giudice che, dalla copia semplice, sappiamo esser stato presente alla stesura dell’atto. Ma ci sono altre incongruenze e contraddizioni che danno luogo a più di un interrogativo. Tuttavia, poiché in questa sede non posso approfondire il complesso argomento, mi limiterò ad esporre, in sintesi, l’elemento più ambiguo che ho ritenuto più rilevante e significativo, il quale, sommato agli altri aspetti, ha portato necessariamente a sollevare qualche legittimo dubbio sulla sincerità del documento, sospetti che hanno avuto la loro conferma definitiva con il rinvenimento dei testamenti di Gomes e Giovanni de Quadro, rispettivamente nonno e padre della nobildonna.

Nell’atto di donazione il notaio tiene a precisare che Giovannella «non ebbe né ha figli, né fratelli, né sorelle, né nipoti figli di fratelli o sorelle e successori in questi feudi», in realtà questa asserzione, viene smentita, almeno in parte, come vedremo, da alcuni documenti d’archivio inediti, dai quali sono emerse preziose e nuove notizie su Giovannella, sul padre Giovanni, sul nonno Gomes e sull’intero clan familiare. Essi hanno consentito di ricostruire non solo le vicende familiari ed economiche, ma anche l’intera genealogia dei de Quadro (Fig. 1), partendo dal capostipite Gomes, permettendoci così di inquadrare tutti i nuclei di parentela, a partire dai Filangeri, famiglia della mamma di Giovannella.

Genealogia baronessa de Quadro con fil. Figura 1: Genealogia baronessa De Quadro (schema dell’autrice)

Gomes, nonno di Giovannella (di cui possediamo diversa documentazione inedita d’archivio), è figlio naturale di Giovanni Romano, barone della terra di Montalbano. Nel maggio del 1423 gli viene assegnata da Alfonso V il Magnanimo, per privilegium la castellania e capitania del castello e della terra di Mola di Taormina quamdiu vitam duxeritis in humanis (ovvero per tutta la vita), con salario e con tutti i consueti diritti e le rispettive prerogative, privilegi, onori ed emolumenti dovuti. Un anno dopo, Gonsalvo de Monroy mediante una donazione inter vivos, cede a Gomes i feudi Fraxini e Brieni. Circa due mesi dopo, il primo novembre, sposa Agata, figlia del nobile Giovanni Ramundo (Raimondi). Dalla loro unione nasce Giovanni. Gomes, il 25 agosto 1455, a Catania, sebbene ammalato e giacente a letto, ma nel pieno delle sue facoltà mentali e intellettuali ed in grado di parlare, detta le sue ultime volontà al notaio Nicola de Balsamo, assistito dal giudice Ximenius de Lixandricio e da sette testimoni: il nobile Giovanni de Aprea, legum doctor, frate Benedetto de Naro, priore del convento di Sant’Agostino, frate Antonio de Iacino, frate Agostino de lo Bordato, il presbiter Antonio de Ricio, il nobile Antonio de Aprea, e il magister Giovanni Canali Cardo. Gomes istituisce erede universale di tutti i suoi beni il figlio Giovanni con vincolo fedecommissario. Egli, infatti, al fine di salvaguardare il mantenimento del patrimonio feudale nell’ambito familiare, predispone un sistema di sostituzioni, con chiamata dei nipoti “ex filio”, sempre comunque preferendo il maschio alla femmina, il maggiore al minore, e il minore alle femmine anche se le stesse maggiori di età. Nella circostanza in cui i nipoti “ex filio” dovessero morire prematuramente, oppure senza lasciare eredi legittimi, il testatore ne stabilisce la loro sostituzione fino all’ultimo (usque ad ultimum) con omnes liberi et nepotes dicti testotoris (“tutti i figli e i nipoti del testatore”), quindi Gomes consente anche la possibilità di chiamare alla successione, in mancanza di discendenza legittima, eventuali figli illegittimi. Dal testamento apprendiamo che ha anche un figlio naturale, Giovannello.

Giovanni consolida la sua posizione contraendo un vantaggioso matrimonio (da cui ottiene una dote di oltre settecento onze) con Beatrice, figlia di Giovanna Pardo e di Francesco Filangeri, barone delle terre di San Marco, che lo renderà padre di tre figli: Giovannella, la primogenita, Giovanni Francesco (che si presume morto in tenera età, in quanto non nominato nel testamento di Giovanni) e la terzogenita Tucia. L’11 ottobre del 1486, Giovanni iacens infirmus in lecto nella sua casa di Catania, ma nel pieno delle sue facoltà mentali, detta il suo testamento nel timore che la morte, come spesso accade, possa sopraggiungere all’improvviso, poiché nihil certius morte nilque incertius hora ipsius mortis (“niente è più certo della morte ma niente vi è di più incerto della sua ora”). Egli nomina eredi universali di tutti i beni mobili ed immobili le due figlie Giovannella e Tucia, con la riserva tuttavia che vengano ottemperate sia le disposizioni testamentarie che le Constitutiones feudorum, pertanto Giovannella, alla morte del padre, erediterà i beni feudali, mentre a Tucia spetterà la dote de paragio. Dispone, altresì, per salvaguardare il patrimonio feudale, che nell’eventualità Giovannella dovesse morire in minore età, oppure senza aver procreato eredi legittimi, di sostituirla con Tucia. Dal documento quindi apprendiamo un importante notizia, ovvero che a quella data Giovannella e Tucia, sono minorenni. La condizione di minorità è confermata dal fatto che Giovanni nomina come tutore e curatore cum ampla potestate delle figlie e dei suoi beni, il conte di San Marco, Riccardo Filangeri, zio materno delle bambine. Dal documento emerge, altresì, che lo stesso affida al Filangeri il nipotino Comiso, prevedendo quattro onze l’anno sui redditi dei feudi per gli alimenti.

Di lì a breve, tuttavia, la morte colse anche Riccardo, che morirà nel 1488, e le due sorelle passano sotto la tutela della zia Eleonora, badessa del monastero di San Benedetto di Catania. Nel 1490 Giovannella, poco più che diciasettenne, con il consenso, l’autorità e la potestà della zia, stipula i capitoli matrimoniali con Pietro Rizzari, portando in dote diversi beni mobili in Randazzo e i feudi ereditati. Dunque, grazie a questo importante documento è possibile risalire con esattezza all’anno di nascita della baronessa: 1473. Rimasta vedova e senza figli, quasi alla soglia dei quarant’anni (1512), a breve distanza di tempo, decide di contrarre nuove nozze: da un atto notarile, rogato nel novembre del 1513, infatti, risulta già sposata con il nobile Andrea Santangelo, cittadino di Catania. Da questo importante documento apprendiamo che Giovannella considerans et attenditis ad pura affectionem dilectionem et amore maritalem dona, con il consenso dell’honorabilis Antonino Cariola suo mundualdo, mediante donazione irrevocabile inter vivos, i suoi feudi ad Andrea Santangelo suo caro et amato marito. Stranamente in esso non vi è alcun cenno alla precedente donazione alla chiesa di Santa Maria.

Tralascio, per ovvie ragioni di brevità, di accennare i successivi documenti d’archivio inediti; mi limito a dire che Tucia sposa il nobile Antonio de Carducho (Carducci), secreto di Troina, al quale, come risulta da un documento del 1520, Giovannella ed Andrea dovevano ancora venti onze, somma residua che i coniugi dovevano al cognato come completamento della dote di Tucia.

Alla luce di quanto detto sinora, non vi è alcun dubbio che Giovannella ha una sorella e che la stessa è ancora viva nel 1520, pertanto, il fatto che il notaio Curupeus dichiari, nell’atto di donazione alla chiesa, il contrario suscita parecchi dubbi sulla genuinità del documento, facendo insorgere il sospetto che possa trattarsi di un falso in forma autentica. D’altronde non è raro che le falsificazioni avvenivano attraverso la richiesta di copie autentiche di documenti falsi, che esibiti all’ignaro notaio, non disponendo degli attuali strumenti di analisi forniti dalla diplomatica e dalla paleografia, in buona fede, li autenticava.

IMG_7879 filigAvviandomi a concludere questo breve contributo, non posso non accennare al documento più controverso, ovvero l’iscrizione scolpita sul basamento del suo monumento funebre:

Vixit annos LXXXV / obiit vero die XV iulii / sesquichiliade quinteque / olympiadis anno / quarto

L’epitaffio si apre con l’indicazione dell’età di morte di Giovannella, 85 anni; dopo questa indicazione troviamo il giorno della sua morte, 15 luglio, introdotto da obiit vero, segue l’anno della sua morte espresso con una formula inusuale.

Considerato che la baronessa concluse la sua vita terrena il 15 luglio del 1529, all’età di 56 anni, non vi è dubbio che l’iscrizione sia da considerarsi fittizia.

In conclusione, dunque, è legittimo sospettare che proprio la lotta all’egemonia tra le tre chiese possa aver spinto in favore della creazione di un documento in base al quale la chiesa di Santa Maria, entrando in possesso dei feudi della baronessa, avrebbe potuto ottenere l’egemonia economica sulle altre due?

Nel licenziare questo breve contributo, rivolgo un sincero ringraziamento a padre Domenico Massimino, arciprete della chiesa di Santa Maria, che con magnanimità ha messo a mia disposizione, in questi anni di lunga ricerca, l’archivio della chiesa, e per avermi consentito gentilmente di visionare, fotografare e studiare la pergamena.
Ringrazio sentitamente padre Gabriele Aiola, parroco della chiesa di San Nicola, per avermi gentilmente concesso e favorito la consultazione dell’archivio parrocchiale.
Ringrazio per la disponibilità dimostrata tutto il personale degli Archivi di Stato di Palermo, Catania, e di quello dell’Archivo de la Corona de Aragón di Barcellona (Spagna).
Ringrazio tutti voi lettori che seguite sempre i miei studi. Grazie per la fiducia che mi avete concesso leggendo i miei lavori.

Ad maiora.

NOTE

[1] Nella copia autentica Iamagla.

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Randazzo in una foto del settembre 1895

Randazzo immortalata in una foto scattata nel settembre del 1895, durante l’inaugurazione della ferrovia della Circumetnea.

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Recueil. Voyage de Raymond Poincaré en Sicile et en Campanie, f. 16v, gallica.bnf.fr / Bibliothèque nationale de France

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Randazzo: una città speciale

In questi anni ho provato a raccontarvi una Randazzo diversa, misteriosa, affascinante, segreta.

Una città singolare con una storia millenaria, uno di quei luoghi ricco di fascino e sorprese. Una città dove ci sono almeno sette motivi che la rendono unica e speciale…

…è la città perfetta per il suo imprescindibile legame con il numero tre e i suoi multipli: Randazzo Ennea

…è la città prescelta dai Cavalieri Templari per la realizzazione di un singolare progetto:
una “Île de France” italiana

…è la città in cui è possibile ammirare uno dei rari esempi di chiesa lunistiziale: la chiesa di San Martino

…è la città che ha un palazzo trecentesco che cela un messaggio ermetico: Casa Lanza

…è la città in cui s’innalza il più bel campanile di Sicilia, che nasconde un messaggio segreto: il campanile di San Martino

…è la città che ha come simbolo una statua che nasconde antiche conoscenze esoteriche: la statua di “Rannazzu Vecchiu”

…è la città in cui un piccolo gioiello, un vero e proprio unicum, custodito dalla chiesa di Santa Maria è un capolavoro di emblematica sacra e di simbologia alchemica: il vecchio coro ligneo della chiesa.

Sette motivi che rendono Randazzo una città particolare, da vedere almeno una volta nella vita.

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Un vecchio coro ligneo: uno dei tanti tesori di Randazzo

Può un vecchio coro ligneo essere considerato un tesoro? Certamente, se oltre a essere antico le decorazioni dei suoi pannelli si ispirano all’emblematica sacra e ai più riposti segreti dell’Arte Regia. Un’opera lignea inusuale, forse unica nel suo genere, in quanto non sembrano esistere altri esempi di tali emblemi riprodotti su arredi sacri.

Uno dei pezzi d’arte lignea più incredibili della città. Un’opera particolare che merita di essere maggiormente valorizzata e scoperta, dopo anni di oblio.

Questo video, pertanto, vuole essere un’occasione per richiamare l’attenzione dei Randazzesi e non solo, su questo piccolo gioiello custodito nella chiesa di Santa Maria.

Buona visione!!!

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I tesori di Randazzo

Randazzo è una città da scoprire e da amare.
Buona visione.

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Alberto Angela svela le “Meraviglie” di Randazzo

Sabato 25 gennaio l’ultima puntata della terza stagione del programma televisivo “ Meraviglie. La Penisola dei tesori”, in onda in prima serata su Rai Uno, popolare trasmissione che racconta e svela le meraviglie dello Stivale condotta da Alberto Angela con la regia di Gabriele Cipollitti e la fotografia di Enzo Calò, parlerà di Randazzo.

Le “meraviglie” di Randazzo sono tante, ma le riprese si sono concentrate sulla chiesa di Santa Maria e Via degli Archi.

Una importante e bella occasione per far scoprire agli Italiani e non solo, la nostra meravigliosa Città.

meraviglie

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