La donazione della baronessa de Quadro: “l’arma segreta” del clero di Santa Maria per conquistare l’egemonia religiosa?

“Frode è de l’uom proprio male”
Dante, Inf. XI, 25

Corre l’obbligo di precisare che questo breve contributo è l’anticipazione di uno studio più ampio e complesso, frutto di una lunga e paziente attività di ricerca, in corso di elaborazione e di prossima pubblicazione.

Il 15 maggio 1469, l’archimandrita Leonzio Crisafi pose fine o comunque una tregua all’annosa contesa che vedeva contrapposte le chiese di San Martino e San Nicola a quella di Santa Maria, circa l’esercizio giurisdizionale che ognuna vantava, pronunciando una piena equiparazione tra esse, stabilendo che ciascuna avrebbe esercitato a turno, per un anno, dal primo settembre al 31 agosto, il diritto di preminenza. Il 24 gennaio 1494, il viceré Ferdinando de Acuña emanò un’ulteriore approvazione dell’equiparazione.

La tregua tuttavia non durò a lungo: bastò una singolare quanto importante donazione a favore della chiesa di Santa Maria a minarla.

Il 5 marzo del 1507 la nobildonna Giovannella de Quadro, moglie del magnifico Pietro Rizzari, miles, per la propria anima e di quella di suo marito e dei suoi parenti, con il consenso e l’autorizzazione del coniuge, dona mediante una donazione irrevocabile inter vivos, alla chiesa di Santa Maria di Randazzo, e per essa al nobile Matteo de Longi, procuratore della stessa, i feudi Fraxini e Brieni siti nel territorio di Randazzo, riservando per sé e il marito l’usufrutto in vita e ponendo anche altre condizioni. L’instrumentum pubblico viene rogato in terra Randacii, dal notaio Hieronimus Curupeus, regius puplicus per totam vallem demonum regni sicilie notarii terre Savoce (“regio pubblico notaio per tutto il Valdemone e del regno di Sicilia e della terra di Savoca”), in presenza del giudice di Randazzo e di sette testimoni: il venerabile presbiter Philippus de Pulicio, il venerabile presbiter Micael lo Daynocto, il nobile Iohannes Thomasius Pullichino, il nobile Gullelmus de Modica, il magister Paulus Perchabosco, il magister Renaldus Intagla[1] e il magister Antonius Fassari.

Grazie a questa donazione la chiesa di Santa Maria amplia e consolida il proprio potere, assicurandosi così un’indiscussa egemonia economica sulle altre due chiese.

La donazione suscita notevoli perplessità e con queste i vecchi dissapori tornano a galla, facendo riaccendere, dopo la morte della baronessa, lotte, controversie e altresì vivacissime discussioni tra autorità ecclesiastiche e civili, che si protrarranno per diversi secoli.

Il documento originale di questa donazione, a meno di ulteriori rinvenimenti, è deperdito, e ci è pervenuta solamente una copia semplice cartacea incompleta (mancano, infatti, l’indicazione del nome del giudice, la sua sottoscrizione e quella dei sette testimoni), da me rinvenuta, e una copia autentica su pergamena, tràdita in forma di transunto, esemplata in forma pubblica il 19 marzo 1507 a Palermo dal notaio palermitano Giovanni Francesco Formaggio e sottoscritta dal giudice Geronimo de Maro e da cinque notai: Vincenzo de Sinatro, Antonio Taglianti, Lorenzo Vulpis, Vincenzo de Medicis e Antonio Giocomo de Lello. La completio, preceduta dal signum tabellionis del notaio autenticante Formahasu, è seguita da un’ulteriore nota, apposta il 20 marzo del 1507 dall’Università di Palermo, con la quale la stessa attesta che Iohannes Franciscus Formahasu è un notaio e si annuncia l’apposizione del sigillo, di cui è visibile solo un sottile strato di cera rossa, di forma rotonda.

Singolare, se non sospetto, risulta il fatto che anche il transunto non riporti la sottoscrizione del giudice che, dalla copia semplice, sappiamo esser stato presente alla stesura dell’atto. Ma ci sono altre incongruenze e contraddizioni che danno luogo a più di un interrogativo. Tuttavia, poiché in questa sede non posso approfondire il complesso argomento, mi limiterò ad esporre, in sintesi, l’elemento più ambiguo che ho ritenuto più rilevante e significativo, il quale, sommato agli altri aspetti, ha portato necessariamente a sollevare qualche legittimo dubbio sulla sincerità del documento, sospetti che hanno avuto la loro conferma definitiva con il rinvenimento dei testamenti di Gomes e Giovanni de Quadro, rispettivamente nonno e padre della nobildonna.

Nell’atto di donazione il notaio tiene a precisare che Giovannella «non ebbe né ha figli, né fratelli, né sorelle, né nipoti figli di fratelli o sorelle e successori in questi feudi», in realtà questa asserzione, viene smentita, almeno in parte, come vedremo, da alcuni documenti d’archivio inediti, dai quali sono emerse preziose e nuove notizie su Giovannella, sul padre Giovanni, sul nonno Gomes e sull’intero clan familiare. Essi hanno consentito di ricostruire non solo le vicende familiari ed economiche, ma anche l’intera genealogia dei de Quadro (Fig. 1), partendo dal capostipite Gomes, permettendoci così di inquadrare tutti i nuclei di parentela, a partire dai Filangeri, famiglia della mamma di Giovannella.

Genealogia baronessa de Quadro con fil. Figura 1: Genealogia baronessa De Quadro (schema dell’autrice)

Gomes, nonno di Giovannella (di cui possediamo diversa documentazione inedita d’archivio), è figlio naturale di Giovanni Romano, barone della terra di Montalbano. Nel maggio del 1423 gli viene assegnata da Alfonso V il Magnanimo, per privilegium la castellania e capitania del castello e della terra di Mola di Taormina quamdiu vitam duxeritis in humanis (ovvero per tutta la vita), con salario e con tutti i consueti diritti e le rispettive prerogative, privilegi, onori ed emolumenti dovuti. Un anno dopo, Gonsalvo de Monroy mediante una donazione inter vivos, cede a Gomes i feudi Fraxini e Brieni. Circa due mesi dopo, il primo novembre, sposa Agata, figlia del nobile Giovanni Ramundo (Raimondi). Dalla loro unione nasce Giovanni. Gomes, il 25 agosto 1455, a Catania, sebbene ammalato e giacente a letto, ma nel pieno delle sue facoltà mentali e intellettuali ed in grado di parlare, detta le sue ultime volontà al notaio Nicola de Balsamo, assistito dal giudice Ximenius de Lixandricio e da sette testimoni: il nobile Giovanni de Aprea, legum doctor, frate Benedetto de Naro, priore del convento di Sant’Agostino, frate Antonio de Iacino, frate Agostino de lo Bordato, il presbiter Antonio de Ricio, il nobile Antonio de Aprea, e il magister Giovanni Canali Cardo. Gomes istituisce erede universale di tutti i suoi beni il figlio Giovanni con vincolo fedecommissario. Egli, infatti, al fine di salvaguardare il mantenimento del patrimonio feudale nell’ambito familiare, predispone un sistema di sostituzioni, con chiamata dei nipoti “ex filio”, sempre comunque preferendo il maschio alla femmina, il maggiore al minore, e il minore alle femmine anche se le stesse maggiori di età. Nella circostanza in cui i nipoti “ex filio” dovessero morire prematuramente, oppure senza lasciare eredi legittimi, il testatore ne stabilisce la loro sostituzione fino all’ultimo (usque ad ultimum) con omnes liberi et nepotes dicti testotoris (“tutti i figli e i nipoti del testatore”), quindi Gomes consente anche la possibilità di chiamare alla successione, in mancanza di discendenza legittima, eventuali figli illegittimi. Dal testamento apprendiamo che ha anche un figlio naturale, Giovannello.

Giovanni consolida la sua posizione contraendo un vantaggioso matrimonio (da cui ottiene una dote di oltre settecento onze) con Beatrice, figlia di Giovanna Pardo e di Francesco Filangeri, barone delle terre di San Marco, che lo renderà padre di tre figli: Giovannella, la primogenita, Giovanni Francesco (che si presume morto in tenera età, in quanto non nominato nel testamento di Giovanni) e la terzogenita Tucia. L’11 ottobre del 1486, Giovanni iacens infirmus in lecto nella sua casa di Catania, ma nel pieno delle sue facoltà mentali, detta il suo testamento nel timore che la morte, come spesso accade, possa sopraggiungere all’improvviso, poiché nihil certius morte nilque incertius hora ipsius mortis (“niente è più certo della morte ma niente vi è di più incerto della sua ora”). Egli nomina eredi universali di tutti i beni mobili ed immobili le due figlie Giovannella e Tucia, con la riserva tuttavia che vengano ottemperate sia le disposizioni testamentarie che le Constitutiones feudorum, pertanto Giovannella, alla morte del padre, erediterà i beni feudali, mentre a Tucia spetterà la dote de paragio. Dispone, altresì, per salvaguardare il patrimonio feudale, che nell’eventualità Giovannella dovesse morire in minore età, oppure senza aver procreato eredi legittimi, di sostituirla con Tucia. Dal documento quindi apprendiamo un importante notizia, ovvero che a quella data Giovannella e Tucia, sono minorenni. La condizione di minorità è confermata dal fatto che Giovanni nomina come tutore e curatore cum ampla potestate delle figlie e dei suoi beni, il conte di San Marco, Riccardo Filangeri, zio materno delle bambine. Dal documento emerge, altresì, che lo stesso affida al Filangeri il nipotino Comiso, prevedendo quattro onze l’anno sui redditi dei feudi per gli alimenti.

Di lì a breve, tuttavia, la morte colse anche Riccardo, che morirà nel 1488, e le due sorelle passano sotto la tutela della zia Eleonora, badessa del monastero di San Benedetto di Catania. Nel 1490 Giovannella, poco più che diciasettenne, con il consenso, l’autorità e la potestà della zia, stipula i capitoli matrimoniali con Pietro Rizzari, portando in dote diversi beni mobili in Randazzo e i feudi ereditati. Dunque, grazie a questo importante documento è possibile risalire con esattezza all’anno di nascita della baronessa: 1473. Rimasta vedova e senza figli, quasi alla soglia dei quarant’anni (1512), a breve distanza di tempo, decide di contrarre nuove nozze: da un atto notarile, rogato nel novembre del 1513, infatti, risulta già sposata con il nobile Andrea Santangelo, cittadino di Catania. Da questo importante documento apprendiamo che Giovannella considerans et attenditis ad pura affectionem dilectionem et amore maritalem dona, con il consenso dell’honorabilis Antonino Cariola suo mundualdo, mediante donazione irrevocabile inter vivos, i suoi feudi ad Andrea Santangelo suo caro et amato marito. Stranamente in esso non vi è alcun cenno alla precedente donazione alla chiesa di Santa Maria.

Tralascio, per ovvie ragioni di brevità, di accennare i successivi documenti d’archivio inediti; mi limito a dire che Tucia sposa il nobile Antonio de Carducho (Carducci), secreto di Troina, al quale, come risulta da un documento del 1520, Giovannella ed Andrea dovevano ancora venti onze, somma residua che i coniugi dovevano al cognato come completamento della dote di Tucia.

Alla luce di quanto detto sinora, non vi è alcun dubbio che Giovannella ha una sorella e che la stessa è ancora viva nel 1520, pertanto, il fatto che il notaio Curupeus dichiari, nell’atto di donazione alla chiesa, il contrario suscita parecchi dubbi sulla genuinità del documento, facendo insorgere il sospetto che possa trattarsi di un falso in forma autentica. D’altronde non è raro che le falsificazioni avvenivano attraverso la richiesta di copie autentiche di documenti falsi, che esibiti all’ignaro notaio, non disponendo degli attuali strumenti di analisi forniti dalla diplomatica e dalla paleografia, in buona fede, li autenticava.

IMG_7879 filigAvviandomi a concludere questo breve contributo, non posso non accennare al documento più controverso, ovvero l’iscrizione scolpita sul basamento del suo monumento funebre:

Vixit annos LXXXV / obiit vero die XV iulii / sesquichiliade quinteque / olympiadis anno / quarto

L’epitaffio si apre con l’indicazione dell’età di morte di Giovannella, 85 anni; dopo questa indicazione troviamo il giorno della sua morte, 15 luglio, introdotto da obiit vero, segue l’anno della sua morte espresso con una formula inusuale.

Considerato che la baronessa concluse la sua vita terrena il 15 luglio del 1529, all’età di 56 anni, non vi è dubbio che l’iscrizione sia da considerarsi fittizia.

In conclusione, dunque, è legittimo sospettare che proprio la lotta all’egemonia tra le tre chiese possa aver spinto in favore della creazione di un documento in base al quale la chiesa di Santa Maria, entrando in possesso dei feudi della baronessa, avrebbe potuto ottenere l’egemonia economica sulle altre due?

Nel licenziare questo breve contributo, rivolgo un sincero ringraziamento a padre Domenico Massimino, arciprete della chiesa di Santa Maria, che con magnanimità ha messo a mia disposizione, in questi anni di lunga ricerca, l’archivio della chiesa, e per avermi consentito gentilmente di visionare, fotografare e studiare la pergamena.
Ringrazio sentitamente padre Gabriele Aiola, parroco della chiesa di San Nicola, per avermi gentilmente concesso e favorito la consultazione dell’archivio parrocchiale.
Ringrazio per la disponibilità dimostrata tutto il personale degli Archivi di Stato di Palermo, Catania, e di quello dell’Archivo de la Corona de Aragón di Barcellona (Spagna).
Ringrazio tutti voi lettori che seguite sempre i miei studi. Grazie per la fiducia che mi avete concesso leggendo i miei lavori.

Ad maiora.

NOTE

[1] Nella copia autentica Iamagla.

La donazione della baronessa de Quadro: “l’arma segreta” del clero di Santa Maria per conquistare l’egemonia religiosa?ultima modifica: 2021-12-22T15:00:04+01:00da angela-militi
Reposta per primo quest’articolo
Questa voce è stata pubblicata in Indice dei contenuti, Storia e contrassegnata con , , , , , , , . Contrassegna il permalink.